Una sera, a tavola, mi è capitato di imbattermi in questa
rassicurante quanto “curiosa” pubblicità. Nulla di raccapricciante;
un’innocua pubblicità della Mulino Bianco, come tante di quelle che
siamo abituati a vedere e costretti a sorbirci con un sarcastico sorriso
sulle labbra – essendo ormai stanchi di questa fin troppo manifesta
ipocrisia – di cui il tema del benessere degli animali, tanto in voga
negli ultimi tempi in questa società perbenista e scrupolosamente
attenta ai diritti del prossimo, sembra essere la colonna portante. Di
fatto lo è. Ma analizziamola attentamente.
Due bambini, con una bianca gallina alle spalle di nome Rosita e con in
mano un ritratto della sua bisnonna, si rivolgono alla loro cara amica
ovaiola discorrendo di quanto la sua defunta antenata sarebbe felice di
saperla non rinchiusa all’interno di una gabbia. Il tutto accompagnato
da sorrisi compiaciuti e da ampie risate di genuina felicità e
soddisfazione. La pubblicità termina con un primo piano del payoff
“Mulino Bianco. Un mondo buono”, a seguito della precisazione che la
suddetta casa utilizza solo uova provenienti da galline allevate a
terra. Io, personalmente, sono stanca di assistere allo spettacolo di
una realtà deformata, e deformata non solo perché anche gli allevamenti a
terra non sono poi quei paradisi ovaioli che tutti vorrebbero far
credere. La realtà è deformata e altamente paradossale per dei motivi
che a mio avviso si trovano a monte, ma forse meno facilmente
individuabili, soprattutto da chi, spettatore, accetta quella distorta
realtà dei fatti con il classico velo di abitudine che ha reso opaco il
suo sguardo – e lo sguardo di un’intera collettività – sin dalla
nascita. Basti pensare a quanti, magari anche sostenitori dei diritti
degli animali, di fronte a tale pubblicità sorriderebbero rincuorati
andando fieri della Mulino Bianco, senza rendersi conto di qual è il
vero messaggio che alla fine, spogliato della prima sensazione di
sollievo e approvazione nei confronti di un diritto giustamente
riconosciuto, rimane lì inceppato a stridere. O per lo meno dovrebbe. Si
tratta dell’ennesima conferma di quanto le situazioni vengano esposte e
recepite in base a dei parametri sfalsati rispetto a quelli che vigono
all’interno della società dell’animale umano. Dell’implicita
differenziazione di valore intrinseco – più o meno consapevole – che
viene effettuata, data e presa per buona (e soprattutto come normale),
comportando una conseguente differenziazione nel modo di proclamare e di
recepire un diritto. Ora, dimentichiamo per un attimo la condizione in
cui le galline sono costrette a vivere all’interno degli allevamenti
intensivi. Dimentichiamo tutto ciò che conosciamo a proposito del loro
sfruttamento, compreso il trattamento dei pulcini maschi, in virtù della
loro inutilità. E dimentichiamo anche il tragico destino verso cui esse
inevitabilmente corrono, tanto negli allevamenti intensivi quanto in
ogni altro tipo di allevamento, compreso quello a terra. Quello che vi
sto chiedendo, in sostanza, è di non pensare a ciò a cui è più facile
pensare, e cioè al loro trattamento e alla loro fine. Immaginiamo un
ipotetico quanto fantomatico paradiso – che potrebbe benissimo essere
quello del contadino locale che dispone soltanto (e facciamo già
attenzione al verbo “disporre”) di due o tre galline per il proprio
sostentamento – in cui non solo le nostre amiche sono libere di
razzolare nell’erba e vengono trattate con i guanti bianchi, ma in cui
gli viene anche assicurata una dignitosa morte di vecchiaia.
Certamente, e non è ciò che miro a negare, una gallina che vive in un
luogo del genere è immensamente più fortunata rispetto alle sue compagne
che vivono in gabbia, ed è immensamente più fortunata rispetto a quelle
altre che, se pur allevate a terra, sono stipate in dei capannoni. È
più fortunata da ogni punto di vista, sia da quello del trattamento, che
da quello della sua sorte. Ma c’è qualcosa che forse sfugge, e per
riportarlo al luogo che dovrebbe competergli desidero rifarmi al
concetto di “valore intrinseco” a cui prima ho accennato e alla
definizione del concetto di dignità, contestandone al tempo stesso il
punto di vista fortemente antropocentrico, delineata dal filosofo
tedesco Immanuel Kant. Così scrive in “Fondazione della metafisica dei costumi”:
“Nel regno dei fini tutto ha un
prezzo o una dignità. Ciò che ha un prezzo può essere sostituito da
qualcos’altro a titolo equivalente; al contrario, ciò che è superiore a
quel prezzo e che non ammette equivalenti, è ciò che ha una
dignità [...] Ciò che permette che qualcosa sia un fine a se stesso non
ha solo un valore relativo, e cioè un prezzo, ma ha un valore
intrinseco, e cioè una dignità.”
“L’umanità [l'essere uomo] è essa stessa una dignità: l’uomo non può
essere trattato dall’uomo (da un altro uomo o da se stesso) come un
semplice mezzo, ma deve essere trattato sempre anche come un fine.”
So benissimo come Kant si serva di questa
formulazione per farne motivo di discriminazione degli esseri viventi
che non appartengono alla specie umana. Sempre parlando dell’uomo,
prosegue infatti affermando:
“In ciò appunto consiste la sua
dignità (personalità), ed è in tal modo che egli si eleva al di sopra di
tutti gli esseri viventi che non sono uomini e possono servirgli da
strumenti.”
In “Metafisica dei costumi” leggiamo inoltre:
“L’uomo considerato nel sistema della
natura (homo phaenomenon [elemento del mondo sensibile], animale
razionale), è un essere di importanza mediocre ed ha un valore modesto
(pretium vulgare) che condivide con tutti gli altri animali che produce
la terra. Ma considerato come persona, e cioè come soggetto di una
ragione moralmente pratica, l’uomo è al di sopra di qualunque prezzo.
Perché da questo punto di vista, come homo noumenon [membro del mondo
intelligibile], egli non può essere considerato come un mezzo per i fini
altrui, o anche per i propri fini, ma come un fine in se stesso, e cioè
egli possiede una dignità (un valore interiore assoluto) mediante cui
costringe tutte le altre creature ragionevoli al rispetto della sua
persona e può misurarsi con ciascuna di esse e considerarsi eguale ad
esse.“
Ciò che mi ha spinto a citare Kant –
nonostante le sue teorizzazioni contengano un punto di vista
diametralmente opposto al mio ed in un certo qual senso anche ciò che
desidero contestare – lungi dall’essere un modo per innescare un
dibattito filosofico per il quale non ho sufficiente competenza, è solo
il desiderio di richiamare l’attenzione sul concetto di “valore
intrinseco”. Il filosofo tedesco sostiene che tale valore sia da
attribuire all’uomo in quanto soggetto di una ragione moralmente pratica
e in quanto membro del mondo intellegibile. Io, in un eccesso di
presunzione che per nessun motivo vuole essere denigratorio nei
confronti dell’intelligenza e delle idee del filosofo – per altro già
ampiamente analizzate e contestate da altri pensatori – ritengo che tale
valore non abbia nulla a che vedere con lo status di soggetto
razionalemorale, ma che vada attribuito all’uomo in quanto soggetto di
vita, essere senziente, in grado di esperire il mondo, provare gioia e
dolore, avere coscienza di se stesso in quanto essere. Tutto ciò che è
stato riconosciuto (c’era poi bisogno di un riconoscimento?) anche
all’infinità degli esseri che appartengono a quello che noi definiamo
regno animale. Il valore intrinseco è un valore assoluto, dato a priori,
che non ha bisogno di essere confermato. Ne consegue che un diritto
nascente da tale valore esista di per sé, e che non abbia bisogno di
essere concesso.
Tornando a Rosita, mi permetto di affermare che, lungi dall’essere una
compassionevole concessione da parte dell’uomo che in tal modo viene
visto come “buono” e “rispettoso”, non solo ha il diritto di non vivere
in una gabbia, ma ha anche il diritto di non essere uno strumento e una
proprietà di qualcuno, in quanto questo diritto si è affermato da solo
nel momento stesso in cui è nata proclamandosi a se stessa e al mondo
come essere vivente e senziente. Mi permetto di affermare che Rosita,
come qualunque altro essere, dovrebbe essere, e di fatto è, di per sé un
fine, non un mezzo.
Il paradosso che si svela agli occhi, di fronte ad una pubblicità del
genere, è il riconoscimento di un diritto al benessere che al tempo
stesso include il disconoscimento di un diritto più grande, che è quello
ad esistere di per sé e per se stessi. Nell’ipotetico paradiso che ci
siamo sforzati di immaginare prima, l’essere, per quanto rispettato e
ben trattato, rimane pur sempre una merce che ha un prezzo. Non ha un
fine che risiede in se stesso, ma il suo fine è quello del sostentamento
dell’uomo che ne “dispone”, che lo “possiede”. È vero, tutti a questo
mondo siamo anche degli strumenti; lavoriamo per qualcuno e per produrre
qualcosa. Ma alla base di questo sistema ci sono dei patti e degli
accordi, delle retribuzioni. La retribuzione, per una gallina e per
qualunque altro essere, non potrà mai essere quella di essere tenuto in
vita e di essere sfamato, e questo semplicemente per due motivi
basilari: 1) perché la vita è un suo incontestabile diritto e non ha
bisogno di essere riconosciuto ed accordato in cambio di qualcosa; 2)
perché se l’uomo non fosse mai intervenuto appropriandosene, sarebbe
stato in grado di sostentarsi da sè.
Oserei aggiungere che, dal mio punto di vista, fino a che esisterà anche
un solo contadino che disporrà di una gallina per il proprio
sostentamento, pur trattandola bene e lasciandole la possibilità di
muoversi in totale libertà, nella mentalità collettiva quell’essere
continuerà ad esser visto come produttore di qualcosa, e non come un
essere fine a se stesso, e utilizzarlo sarà lecito, perché non saranno
state decostruite la logica e l’ideologia dell’utilizzo. Se un solo
contadino ha diritto di mangiare un uovo, considerandolo ancora come un
qualcosa di giusto e “naturale”, non vedo per quale motivo dovrebbe
essere il solo a farlo. Quindi, alla luce di tutto ciò, invito a fare
molta attenzione nella valutazione di siffatti spot pubblicitari, nella
maggior parte dei casi a prima vista innocui, e ad individuare dove ci
si metta in mostra – magari in buona fede ed inconsapevolmente, non
voltandosi a guardare a monte – concedendo un qualcosa che di per sé è
già paradossale abbia bisogno di essere concesso. Per gli ideatori dello
spot e per molti degli spettatori inchiodati (e bendati) davanti allo
schermo, Rosita è fortunata perché non vive in una gabbia. Tanto di
cappello. Ma per chi i paraocchi se li è strappati da tempo, sa guardare
e andare a fondo, o anche semplicemente cogliere con i sensi, a primo
impatto, la profondità di una questione senza doverla studiare ed
elaborare, Rosita non può che apparire tristemente sfortunata, in quanto
ancora vittima di una visione specista che la riduce ad un puro
strumento, per il quale non ci si può augurare altro che il
riconoscimento e la concessione di un benessere/diritto che in realtà
era già pienamente suo, dato dal semplice fatto di esistere.